Seleziona una pagina
L.P. Nicoletti. La terracotta di Giuseppe Pirozzi

L.P. Nicoletti. La terracotta di Giuseppe Pirozzi

in L.P. Nicoletti, Giuseppe Pirozzi. Preghiere di terracotta, Ubuart, n. 169, Ferrara, Comunicazione Stampa, 2018, pp. 5-8

 

Giuseppe Pirozzi è arrivato alla scultura in terracotta in una stagione matura del suo lungo percorso artistico e dopo una assidua frequentazione con l’arte del bronzo, di cui ha sondato tutti i segreti con minuzia di cesellatore e un rodato mestiere. Lo si notava bene in Rudera, la mostra tenutasi a Castel Sant’Elmo di Napoli a cavallo tra l’autunno del 2017 e l’inizio del 2018, accompagnata in catalogo da un fitto saggio di Enrico Crispolti, che era già stato tra i primi interpreti del suo lavoro, su cui torna a cinquant’anni dalla presentazione della personale alla galleria Il Girasole di Roma. In quel frangente Pirozzi, che Lea Vergine sulle pagine de “Il Pungolo” appena quattro anni prima aveva definitivo «già più di una promessa» (2 maggio 1963), era rientrato in un tentativo di lettura più generale da parte del critico della situazione della giovane scultura, in una rete di confronti con Rimondi e Rambelli, ma riconducendolo alla linea di sviluppo di una possibile “scuola” napoletana che faceva capo alla ricerca di Perez. Eppure, sin da allora, a differenza di quest’ultimo Pirozzi poteva rientrare anche dentro un’altra storia della scultura, ovvero quella che aveva messo da parte l’esperienza tattile per sondare le possibilità di una scultura di “costruzione” fatta per accumulo di immagini, fra prelievi oggettuali e citazioni, come a voler dare consistenza fisica ai meccanismi della memoria e della libera associazione surrealista. Erano per Pirozzi anni, ricorda Crispolti nel testo del 2017, di «figuralità frammentata e associativamente compositiva», in cui confluivano suggestioni di varia natura e varie combinazioni, oscillando fra sollecitazioni «iconico organiche» e spunti «meccanico oggettuali».
Il ricorso alla fusione era reso necessario dalla scelta di un processo creativo assemblaggista, perseguendo la via della narrazione attraverso la costruzione di immagini composite, fatte di preesistenze oggettuali e di citazioni figurali riunite in un’unica compagine plastica, ma arricchita di inediti interventi di manipolazione. La costruzione di un’immagine che non si limitasse alla modellazione tattile, infatti, richiedeva strumenti complessi, giochi di equilibrio che tengono coesa una struttura altrimenti precaria a cui serve la solidità di un momento unificatore dato dal passaggio in fonderia. Eppure anche questo non è un passaggio meccanico, perché una volta costruita la sua forma Pirozzi interviene anche sulla forma in cera prima della fusione, manipolando la materia riscaldata rendendola malleabile al tocco, in modo da arricchire la qualità materica della scultura e di inserirvi nuovi elementi. In qualche modo, egli unisce così strumenti adottati da altri scultori fra anni Sessanta e Settanta: reinventando il ready-made alla stregua di Alik Cavaliere, Pirozzi non rinuncia al segno della mano, al pari di Quinto Ghermandi, col quale si riscontrano numerose tangenze per quella stagione. Entrambi, per esempio, non disdegnano l’utilizzo degli scarti e dei residui di cera, sfruttandone la colatura spontanea e sottolineandone il vitalismo fiorito e organico, al pari di quanto Edgardo Mannucci aveva fatto saldando gli scarti di fusione in forme di memoria cosmica. La messa a punto di questo procedimento, che permea tutto il suo lavoro, dagli esordi alle grandi allegorie in gesso e poi in bronzo, fino alle terrecotte della maturità, assume però un connotato specifico diverso dagli esempi citati, rispetto ai quali affiora un elemento figurativo inedito che lo riavvicina, come osservava Crispolti, a quell’alveo della scultura napoletana di cui Perez avrebbe fatto da capofila. Nei Settanta, una volta chiarite le ragioni della sua scultura, Pirozzi sarebbe arrivato, come osserva sempre Crispolti (2017), a una scelta figurativa più esplicita, ma soprattutto a «un riscontro di memorialità compositva nei suoi affioramenti entro allusioni ambientali frammentariamente più esplicita». Dentro il magma della materia, che nei gessi degli anni Sessanta aveva peculiari sensibilità di ordine “barocco”, affioravano volti e frammenti anatomici come un momento di chiarificazione all’interno di una dimensione onirica, quasi di natura simbolista.
La logica narrativa, nel tempo, si è perfezionata per Pirozzi con l’inserimento di nuovi temi ma non è cambiata nella sua sostanza: anche una volta approdato alla terracotta colorata, giocata alternando ingobbi bianchi e neri al colore naturale del biscotto, il racconto si svolge sempre per accumulo di elementi, come se la scultura fosse diventata un deposito in cui le immagini si stratificano e assumono la loro sostanza di memorie liberamente sovrapposte. Allo stesso tempo, poi, si chiarisce la natura grafica della scultura di Pirozzi, che in molti casi diventa quasi un disegno a rilievo, in cui la forma è avvinta fra l’essere inglobata o fuoriuscire dal piano. Sempre Crispolti parla di «una consistente ricorrenza combinatoria oggettuale. Che si muove assemblagisticamente sul filo d’una sorta di estroversione memoriale, fra una svariata composizione di frammentarie squadrate risultanze d’oggetti. Memoria per accumulazione interferenze e compenetrante di frammenti oggettuali vagamente allusivi in una come di fatto smemorata quotidianità d’un passato appunto reificabile attraverso la ricorrente modalità di possibili combinazioni». La terracotta, oltretutto, ha offerto a Pirozzi la possibilità di un ulteriore sviluppo rispetto alla ricerca precedente: accanto alla scultura a tuttotondo, vero e proprio totem “ortopedico”, colonna o tabernacolo di ordinato accumulo, dominata da squadre e strumenti di misurazione come certe situazioni dipinte dal De Chirico metafisico o le isole di cubi e giocattoli di suo fratello Alberto Savinio, l’artista napoletano ha dato vita a una serie di grandi rilievi di oggetti, come metope allegoriche che superano la natura morta, o almeno la ripensano come accostamento di oggetti su un piano. È così che si giunge alla lunga serie delle “Preghiere”, piccole composizioni come cose fatte velocemente (nel tempo di una “preghiera” appunto) come pensieri concentrati in uno spazio ridotto e con umili oggetti. Estranei alla liturgia e all’iconografia del sacro, questi rilievi di minuta dimensione sono i nuovi approdi del racconto visivo, che ricordano la loro naturale radice nella cultura dell’informale, nella sensibilità epidermica per la superficie che si increspa, che dichiara la propria natura di materia manipolata con poveri mezzi, con gesto concentrato e assorto, frugale e intimo. Nel deposito della memoria, la vertigine della lista diventa un nuovo, riservato e non retorico racconto.

E. Crispolti. Per il sincretismo iconico memoriale di Pirozzi, inoltrandosi nel Duemila

E. Crispolti. Per il sincretismo iconico memoriale di Pirozzi, inoltrandosi nel Duemila

in E. Crispolti (a cura di), Giuseppe Pirozzi. Rudera: sculture in terracotta 2007-2017, San Sebastiano al Vesuvio, Editalfa, 2017, pp. 7-11

 

Con la scultura di Pirozzi ho un conto aperto, di attenzioni critiche e dialogo, che corre lungo oltre cinquant’anni di reciproca operatività, pur inegualmente intermittente, in particolare dipanatasi fra diverse significative occasioni propositive. Da Prospettive 2, a Roma, Ferrara, Napoli, appartenente al ciclo di rilevazioni giovanili messo su con Di Genova, nel 1966; la personale romana a Il Girasole, l’anno dopo, e le presenze in Alternative Attuali 3, nel Castello Spagnolo de L’Aquila, nel 1968, e poi in Napoli Situazione 75, appunto nel 1975, a Marigliano (dove, fra il molto altro, un Mimmo Paladino era ancora rappresentato da composizioni stregonesche fotografiche), e in Scultura disegnata a Roma-EUR, nella Festa Nazionale de L’Unità, nel 1984. E la mia prima attenzione al suo fare plastico si era sviluppata nel quadro di quel significativamente avvertibile subentrare di una nuova ondata di interesse per l’assai fervente situazione artistica napoletana e poi campana (oggetto di particolare attenzione e prossimità, per me romano, operante contro orizzonti d’una locale ufficialità “nazionale” che quella realtà, pur fisicamente non lontana, del tutto invece ignorava, non oltrepassando in attenzioni critiche Porta San Giovanni). E accadeva appunto verso metà dei Sessanta, dopo gli intensi miei rapporti di dialogo collaborativo con una memorabilmente creativa situazione napoletana fra un particolare ”nuclearismo” organico-gestuale (in provocatorio rapporto diretto con Baj) e sviluppi ulteriori, invece in sondaggi iconico-archetipici attorno alla vivace autoctona rivista Documento Sud, in prospettive appunto di euristica immaginativa fondata sull’attivazione di ficcanti suggestioni dal folto e coinvolgente smemorato patrimonio d’una specifica stratificata locale densa realtà antropologica.
L’ambito di una nuova fervidamente affluente situazione creativa in area napoletana era costituito infatti, da intorno la metà dei Sessanta, dalla situazione di un montante ambito di ricerca nuova costituitasi specificamente in scultura. E proprio muovendo dalle esperienze formative d’Accademia, ove il raffinato plasticismo iconico idealizzante, in vaga nostalgia di Magna Grecia, del magistero di un Emilio Greco, finiva di fatto quotidianamente messo proficuamente in causa da una concretezza d’intuita necessità di rispondenza a una diversa pressione d’usura esistenziale dal fare costante di Augusto Perez, concretamente suo quotidiano assistente. E nel 1967 lo premettevo chiaramente introducendo il catalogo della intensa personale romana di Pirozzi a Il Girasole: «mentre nella seconda metà degli anni Cinquanta e poco oltre la cultura figurativa napoletana aveva la sua giovane punta di diamante nel Gruppo 56, che fu praticamente di pittori (Biasi, Del Pezzo…, come ognun sa), negli anni più recenti, in quanto gruppo, il pensiero corre subito, nella situazione napoletana, appunto a quei giovani scultori sorti attorno a Perez».
Una stimolante fattuale “lezione” pereziana influente proprio, sottolineavo, «nel suo accidentato percorso di gestazione dell’immagine, un percorso fitto di rischi, che Perez accetta in tutto il loro peso, riscattando l’immagine stessa, brano a brano, configurandola appunto sul posto». Di fatto venendone allora in particolare suggestioni d’una rudezza figurale d’implicazione quasi relittuale, fra suggestioni corporee da Pompei e novità espressive matericamente informali da proposte della giovane scultura inglese post-mooriana, fra Meadows, Butler, Paolozzi, Armitage, affermatasi già nella Biennale veneziana del 1952. La vicenda creativa plastica di Pirozzi si è, originalmente quanto coerentemente, venuta sviluppando da quella base formativa, attraverso nel tempo le occasioni d’una figuralità frammentata e associativamente compositiva, evolutivamente ricettiva di molte suggestioni, fra iconico organiche e meccanico oggettuali, in una lunga pratica modellante bronzea, e di contrastanti inserti oggettuali metallici, fino all’apertura all’inizio degli anni Duemila, d’una più colloquiale pratica della esclusiva terracotta in ricorrenti svariati “retabli” d’assemblaggi narrativo-evocativi di riferimento memoriale anche soprattutto oggettuale. Che costituiscono lo specifico di questa sua nuova articolata personale napoletana, ove il suo lungo passato risulta richiamato in presenze già istituzionalmente assestate (come visibili contemporaneamente nel Museo Novecento a Napoli che ospiterà alcuni suoi bronzi fra anni Sessanta e Duemila), e invece sono le singole imprese plastiche figuline, o le ordinate sequenze di analoghe formelle cromaticamente ingobbiate a tenere il campo, fra molteplici svariati insiemi memorialmente motivati.
Lungo gli anni Sessanta il percorso immaginativo operativo plastico di Pirozzi va da iniziali relittuali, informemente materici, rattrappiti corpi, sviluppati in echi pereziani, nella prima metà, a una significativa opzione per l’ambito dell’episodio plastico a dimensione di frammento, ove alla componente d’ascendenza organico corporea s’associa dialetticamente, in un itinerario sul filo d’un nesso memorialmente evocativo, un riferimento oggettuale ambientale (fra cornici, come appunto nel 1967 a Roma, a Il Girasole, e allusioni murarie, come nell’importante aggregazione di frammenti esplicitamente corporei ed organici, e altri oggettuali, e appunto altri ambientali d’immediatezza materica, che è un capo d’opera di quel momento quale Venerato ricordo (1966), visibile stabilmente nel medesimo Museo Novecento a Napoli. Un passaggio che segna la significativa acquisizione d’un esplicito dialogo dell’immaginario plastico pirozziano con una tradizione da barocco a barocchetto, anche proprio meridionale, utili a caratterizzare il materismo informale e a connotarlo oltre soluzioni di mero riscontro organico. Anche fra fine dei Sessanta e inizio ma soprattutto lungo la prima metà dei Settanta s’assiste al sopraggiungere, sullo scenario plastico organico-oggettuale pirozziano, d’un diverso elemento invece del tutto meccanico, dapprima in evidente antagonismo con il frammento organico. Che tuttavia, nel corso della prima metà dei Settanta, si rapporta a quest’ultimo non più contrapponendovisi ma addirittura includendolo, come riducendo l’organico stesso frammentario da protagonista a sorta di reliquiale racchiusa presenza, che sembri fuoriuscirne. D’altra parte forse immaginando altrimenti una memoria organica che corroda una rilucente presenza oggettuale geometrica. Ma ecco che alla fine dei Settanta il campo plastico pirozziano si chiarisce nei ruoli delle componenti confluenti attraverso un esplicito riferimento figurativo umano (volti, brani di corpi), in un riscontro di memorialità composita nei suoi affioramenti entro allusioni ambientali frammentariamente più esplicite. Quasi in allusione di quadri plastici, ove riaffiora anche la componente d’una complessità ambigua e conflittuale di eco manierista. Eco che si rafforza nei secondi Ottanta in proposizioni plastiche invece compatte, quasi singolarmente totemiche, la cui oggettività plastica complessa si sostanzia di presenze allusive svariate: rigogliose e piene ma anche a volte come capziose. E lungo i Novanta l’assemblagismo iconico-plastico pirozziano si complica in una scoperta affluenza non soltanto di circostanze corporee od organiche ma anche di frammenti oggettuali, più o meno riconoscibili, che spingono verso un’evidenza assemblagistica conflittualmente appunto oggettuale. Ove, lungo la prima metà del primo decennio del Duemila, le proposizioni si esplicitano in una evidenza assemblagistica iconico-oggettuale decisamente più patente.
E da metà del 2000 l’operatività plastica di Pirozzi opta radicalmente per il precedentemente inusitato, più agevole mezzo figulino, sostituendo dunque la semplice terracotta, a volte ingobbiata, al bronzo. Il che provoca un assestamento sia decantativo, sia combinativo del processo associativo memoriale che ha caratterizzato ampia parte della carriera plastica di Pirozzi. È, in tipologie differenziate, la ventina di sculture di media dimensione a tuttotondo e a rilievo, bifrontali, realizzate appunto in terracotta dal 2007 a oggi, ora collocate espositivamente nell’aula della Chiesa di Sant’Erasmo, in un’ordinata disposizione in due insiemi, a fronte dell’importante Trittico che quasi espressivamente le domina e riassume, realizzato fra 2016 e ’17. Trittico nel quale si riassume la nuova condizione operativa dell’immaginario plastico pirozziano, la cui dominante appare ora, a fronte di una materia in certo modo più elementare e certo di manipolazione diretta quale la terra, una consistente ricorrenza combinatoria oggettuale. Che si muove assemblagisticamente sul filo d’una sorta di estroversione memoriale, fra una svariata combinazione di frammentarie squadrate risultanze d’oggetti. Memoria per accumulazione interferente e compenetrante di frammenti oggettuali vagamente allusivi in una come di fatto smemorata quotidianità d’un passato appunto reificabile attraverso la ricorrente modalità di possibili combinazioni. Che nelle singole sculture di terracotta ingobbiata, utilizzando componenti differenziate sia plasticamente sia in certa misura cromaticamente, si offrono come possibilità combinatorie direi assai spesso ludico-evocative, fra oggetti, numeri e volti affioranti. Marchingegni immaginativi, nei quali con grande disinvoltura e maestria plastica, Pirozzi propone come delle occasioni di divagazione inventiva, offerte con un garbo quasi di “capriccio” appunto plastico settecentesco. In cui la componente ludico immaginativa, attraverso un riscontro sincretico di possibili ricordi e suggestioni, si fa occasione di circostanziata, plausibile, provazione plastica. Occasioni d’immaginare allusivamente, in una gamma assai ampia di invenzioni, combinazioni, soluzioni, il cui senso credo risieda tutto nell’offerta, molto svariata, d’un possibile repertorio di sapienti provocazioni plastiche combinatoriamente appunto allusive. Raramente tuttavia insinuandovisi un accento monitoriamente drammatico. Occasioni di prestigitazione plastica, le direi. Che assumono indubbiamente valenza suggestivamente più impegnativa nelle sculture di maggiori dimensioni e ingaggio costruttivo, inserite in gabbie d’allusività presentativa: di composta evocazione (come Palmira, del 2014), o di plasticità quasi divagatoria (come Levitazione, del 2015), o di monitorietà suggestiva (come Angelo ribelle, del 2015); mentre improvvisamente la situazione sembra plasticamente, tragicamente, incupirsi in verosimile allusività (come in Il rimorso, del 2016).
Mentre nell’adiacente sacrestia, Pirozzi propone un’installazione ambientale costituita dall’allestimento compattato su un’unica parete di cento piccole formelle a bassorilievo, in terracotta ingobbiata in ricca varietà cromatica. E sono le sue proposte di realizzazione più recente. La vivacità della cui breve ma evocativamente e direi umoralmente intensa e svariatissima invenzione, sia iconico-plastica che di caratterizzazione cromatica, in piccole superfici dunque variopinte ciascuna diversa e a suo modo spiazzante, costituisce, quasi attraverso un fitto regolare insieme di immaginifici, misteriosamente allusivi ex-voto, un insieme a suo modo unico, e al tempo stesso d’un di volta in volta sfogliabile insieme di pagine tanto uniche quanto complessivamente, come qui appunto, memorialmente connettibili. Realizzazioni felicemente dipanantesi fra 2012 e 2017, il cui patrimonio immaginativo sembra voler del tutto liberamente riassumere, in un succedersi di episodi di per sé singolarmente caratterizzati in densità memoriale episodica, un universo di possibili sedimentate soluzioni, affermazioni, allusioni. Differenti dunque singolarmente, nel loro creativo disordine d’affluenze appunto memoriali, matericamente sfatte e sensibili, dalla chiarezza d’iniziativa repertuale del ciclo, sviluppato fra 2010 e ’12, costituito da altre formelle di pura terracotta. Le cui folte e al confronto ordinate commistioni oggettuali caratterizzavano in soluzioni a loro modo invece d’analitica possibile chiarezza un affastellarsi di frammenti e affioramenti diversi. Come «i mille frammenti della classicità e della memoria ordinati in maestosa simmetria» aveva sottolineato Giuseppe Appella in una breve specifica monografia delle Edizioni della Cometa, apparsa nel 2011, quando le espose a Napoli. Frammenti e affioramenti forse decifrabili tracce d’un tempo remoto sì ma al confronto non altrettanto memorialmente ed emotivamente intrigante che nelle brevi vivaci preghiere, qui ricomposte appunto in grande retablo, quasi quotidianamente spendibili. Ultima suggestione emotivo-riflessiva propostaci sommessamente dall’immaginazione intensamente partecipe e plasticamente esperta di Pirozzi.

Rudera. Sculture in terracotta 2007-2017

Rudera. Sculture in terracotta 2007-2017

Venerdì 13 ottobre 2017, alle ore 17,00, al Museo Novecento a Napoli e nella chiesa di Sant’Erasmo sulla Piazza d’Armi di Castel Sant’Elmo a Napoli si è inaugurata la mostra di sculture di Giuseppe Pirozzi Rudera. Sculture in terracotta 2007-2017 a cura di Enrico Crispolti. La mostra prosegue fino al 31 gennaio 2018 con orari 9.30-17.00 (martedì chiuso).

Il titolo dell’esposizione è tratto dalla poesia “Rudera”, composta da Michele Sovente per la scultura di Giuseppe Pirozzi. La mostra si articola in tre spazi diversi del Castel Sant’Elmo: nel Museo è presentata una selezione di opere in bronzo che testimonia le fasi principali del percorso di ricerca artistica dello scultore, dagli esordi degli anni Cinquanta a oggi. La chiesa di Sant’Erasmo – che per la prima volta si aggiunge agli spazi espositivi – accoglie venticinque sculture in terracotta, in gran parte inedite, realizzate dall’artista nell’ultimo decennio. Infine, nella sagrestia della stessa si trova l’istallazione Preghiere, costituita da cento formelle in terracotta ingobbiata, plasmate con continuità rituale dallo scultore negli ultimi quattro anni e allestite a parete come opera unica.

Il curatore Enrico Crispolti definisce le opere esposte: «Marchingegni immaginativi, nei quali con grande disinvoltura e maestria plastica, Pirozzi propone come delle occasioni di divagazione inventiva, offerte con un garbo quasi di “capriccio” appunto plastico settecentesco. In cui la componente ludico immaginativa, attraverso un riscontro sincretico di possibili ricordi e suggestioni, si fa occasione di circostanziata, plausibile, provazione plastica. Occasioni d’immaginare allusivamente, in una gamma assai ampia di invenzioni, combinazioni, soluzioni, il cui senso credo risieda tutto nell’offerta, molto svariata, d’un possibile repertorio di sapienti provocazioni plastiche combinatoriamente appunto allusive. Raramente tuttavia insinuandovisi un accento monitoriamente drammatico. […] Mentre nell’adiacente sacrestia, Pirozzi propone un’installazione ambientale costituita dall’allestimento compattato su un’unica parete di cento piccole formelle […] La vivacità della cui breve ma evocativamente e direi umoralmente intensa e svariatissima invenzione, sia iconico-plastica che di caratterizzazione cromatica, in piccole superfici dunque variopinte ciascuna diversa e a suo modo spiazzante, costituisce, quasi attraverso un fitto regolare insieme di immaginifici, misteriosamente allusivi ex-voto, un insieme a suo modo unico, e al tempo stesso d’un di volta in volta sfogliabile insieme di pagine tanto uniche quanto complessivamente, come qui appunto, memorialmente connettibili» (Per il sincretismo iconico memoriale di Pirozzi, inoltrandosi nel Duemila, estratto, 2017).

La collezione permanente del Museo Novecento a Napoli include due opere dell’artista: Figura in movimento (1956) e Venerato ricordo (1966).

Catalogo edito da Editalfa, testi di Anna Imponente, Anna Maria Romano, Enrico Crispolti, Gabriele Frasca, Ugo Vuoso, Claudia Borrelli, Francesca Pirozzi.

Ceramica: FormaMateriaColore

Ceramica: FormaMateriaColore

Tri-personale di scultura ceramica di Clara Garesio, Ellen G. e Giuseppe Pirozzi, a cura di Gabriella Taddeo, testo critico di Clorinda Irace, con il Patrocinio del Comune di Salerno e del Comune di Atrani (SA).  Vernissage: sabato 21 maggio 2016 h 18.00, Museo Città Creativa di Ogliara, Via Ogliara, 127/143 – Salerno. Dal 21 maggio al 15 luglio 2016. 

La mostra “Ceramica: Forma Materia Colore” degli artisti Clara Garesio, Ellen G. e Giuseppe Pirozzi al Museo Città Creativa di Ogliara Salerno, intende proporre – come scrive la curatrice – «tre diverse declinazioni del linguaggio ceramico e nello stesso tempo indagare il tema di una attuale famiglia di artisti. Giuseppe Pirozzi, ex-docente all’Accademia di Belle Arti di Napoli, fin dagli anni ’50 si è confrontato con la contemporaneità prevalentemente nel campo della scultura, scegliendo come materia d‘elezione il bronzo, ma dedicandosi nell’ultimo decennio prevalentemente alla terracotta, facendo affiorare dalla materia argillosa archetipi e immagini della memoria; Clara Garesio – sua moglie – è ceramista di formazione faentina ed opera da sempre nell’arte ceramica e nella didattica, sperimentando molteplici tecniche e linguaggi, dalla maiolica, al grés, alla porcellana, alla terracotta decorata con originali smalti policromi, privilegiando la ricerca sul colore e sulla superficie; Ellen G., architetto, storico dell’arte e artista – loro figlia – si esprime con un linguaggio centrato sulla costruzione razionale della forma plasmata nella terracotta e ricoperta da sobrie cromie ad ingobbio o smalto, nascono così forme atemporali, arricchite da allusioni simboliche universali. In altre parole da una stessa atmosfera familiare, da una stessa radice si diramano tre vitalità artistiche particolari, eterogenee fra loro, ma ognuna di notevole, indiscusso spessore».