Il primo capitolo di questa storia s’intitola La capra ferita e racconta di un ragazzo del Liceo Artistico di Napoli che, modellata con grande fervore la scultura di una capra, se la ritrovò qualche giorno dopo miseramente franata a terra. Uno dei suoi insegnanti, Antonio Venditti, che in quegli anni aveva dato vita, con Barisani, De Fusco e Tatafiore, al Gruppo Napoletano Arte Concreta, lo confortò facendogli notare che così, in quella posizione accidentale, l’opera era ancora più interessante; riuscì a convincerlo a non distruggerla e ad andare avanti sulla strada della scultura. Era il 1953. Dell’episodio rimane una fotografia un po’ ingiallita dal tempo. Sembra il documento di una sciagura; nel corpo irrigidito dell’animale, che dalla penombra del fondo sporge verso il primo piano, c’è qualcosa di tragico che rievoca la scena dell’antico “lamento” del contadino sull’asino morto. Ma il modellato scabro e sommario, le gampe esili ed il gran ventre rigonfio fanno venire in mente La capra di Picasso del 1950.
La storia continua nell’aula della Scuola di Scultura dell’Accademia di Belle Arti, dove Pirozzi, oramai vicino ai vent’anni, ha una sua piccola postazione. Partito Alessandro Monteleone, che dal 1935 occupava la cattedra di Scultura, sono arrivati, nel 1955, Emilio Greco, il titolare, e Augusto Perez, il suo assistente: due modi opposti di intendere la scultura, estroverso ed elegantemente rifinito l’uno, drammatico e tormentato l’altro. Ma se si guardano le opere che il giovanissimo artista realizza in quel suo angolo di lavoro, dal 1954 al 1957, è facile accorgersi che egli in realtà si muove su percorsi diversi. I gessi di Figurina seduta e Figura seduta, del 1955, mostrano, al di là di qualche pur interessante inclinazione arcaicizzante, una concezione della scultura come definizione volumetrica rigorosa, che si sottrae, nel suo desiderio di estrema pulizia formale, alle tentazioni del pittoricismo di matrice veristica ancora diffuse nella scultura napoletana della prima metà del Novecento. In queste opere l’investigazione è spinta verso una meta di tale purezza plastica da trovare conforto non tanto in qualche esempio proveniente dall’area delle esperienze figurative allora più a portata di mano, quanto nel progetto di una scultura che, pur conservando in sé un nucleo forte di figurazione, potesse appropriarsi di esiti linguistici di natura “astrattiva”. Il caso più significativo, in tale direzione, era quello costituito dai “nudi” di Alberto Viani, che, risolvendo l’anatomia dei corpi nella “nudità” di una forma plastica fluidamente effusa nello spazio, mentre adombrava nella materia immacolata dei marmi e dei gessi l’ideale neoclassico della bellezza assoluta, nello stesso tempo – annotò Sergio Bettini nel 1952 (cat. XXVI Biennale di Venezia) – si apparentava a quello dei più famosi protagonisti dell’astrattismo, da Brancusi ad Arp. Anche Costanza Lorenzetti, presentando nel 1957 una mostra di giovani artisti napoletani, tra cui appunto Pirozzi, accennerà ad un orientamento “verso la necessità di esperienze di astrazione”. Ma qui va chiarito che il proposito di Pirozzi configurava in effetti un’operazione di segno opposto, di riconversione cioè sul terreno della figurazione di una sintassi formale di provenienza prevalentemente astratta. La spinta principale a tentare questa impresa gli veniva, per vie dirette e molto prossime, dallo stesso Venditti che un paio d’anni prima, dopo l'”infortunio” della capra, gli era stato più d’ogni altro vicino. Oramai fuori dall’avventura del Gruppo Napoletano Arte Concreta e non ancora impegnato a restituire spessore ed asprezza materica ad un mondo mitologico che si sarebbe popolato di arcaiche e mostruose creature, Venditti visse, tra il 1955 e il 1956, una fase di ripensamento che lo indusse a riprendere il filo delle ricerche da lui condotte sul finire degli anni Quaranta. Luigi Paolo Finizio ha parlato di “un ciclo a ritroso”, in cui l’artista procede alla “ricostituzione visiva a tutto tondo dell’assetto plastico”, realizzando una serie di gessi culminata nella terza versione dell’Assetato, del 1955, dove il tema, dichiaratamente martiniano già nel titolo, si scioglie nella fluidità di una nitida e levigata volumetria (L. P. Finizio, La scultura di Antonio Venditti, Enne, Campobasso 1984). La nitida tornitura formale cui Pirozzi sottopone i volumi nei due gessi del 1955 non è semplicemente il risultato di un trattamento di pulizia delle superfici, liberate da inutili aggiunte e notazioni di dettagli e quasi immunizzate dai pericoli provocati da quel tanto di ineliminabile accidentalità della materia. È, invece, un procedimento strutturale che investe l’idea stessa di scultura: la rinuncia alle piacevolezze del “tocco” e agli effetti d’immersione atmosferica è compiuta al fine di consentire all’opera, in condizioni di diffusa e uniforme luminosità, di mettere in vista la propria struttura plastica e il modo in cui questa si articola e si dispone nello spazio. Se si sta insistendo nella lettura di queste due opere è perché contengono un’indicazione che va al di là della stessa soluzione formale che esse propongono. Questa, infatti, nel giro d’un paio d’anni sarà sopraffatta dal sopraggiungere dell’esperienza informale, ma il problema della tenuta strutturale dell’opera rimarrà sempre al centro dell’attenzione dell’artista. Attraverso le diverse tappe del suo cammino non verrà mai meno in lui la convinzione che l’elemento strutturale – l’idea di un’architettura d’insieme – giochi un ruolo determinante nello sviluppo della compagine plastica. Tale consapevolezza diventerà più acuta proprio quando certi aspetti delle poetiche informali ed oggettuali sembreranno metterla in discussione. Questa tensione tra opposte polarità non è sfuggita alla critica, che vi ha riconosciuto un tratto caratterizzante di tutto il lavoro di Pirozzi. È l’idea stessa di scultura che spinge a ricercare nell’accidentalità e nella contingenza della vita un elemento strutturale che valga come base per una possibile restituzione di senso alla nostra condizione esistenziale. Su questa via la messa in evidenza dell’elemento strutturale, nell’opera d’arte, avviene con un duplice movimento, in cui, incrociandosi referenzialità e autoriflessività, il momento del rispecchiamento dell’ordine implicito nell’apparente caoticità del reale è insieme momento di riflessione della scultura su se stessa. Non è un piccolo merito della scultura di Pirozzi se essa ancora qualche anno fa ha suggerito un’intelligente meditazione sulla necessità – in un’epoca in cui spesso l’arte, a furia di passaggi vuotamente autoreferenziali, è arrivata “all’estremo della riduzione, al-la monocromia e all’acromia” – di compromettersi fino in fondo con la complessità delle cose, «immergendosi nel groviglio del caos per riportare alla luce un nucleo di ardua verità» (M. De Stasio, 2000). Quanto sia profonda la forza di coinvolgimento che esprime la scultura di Pirozzi lo dimostra un ciclo di opere, in parte perdute e certamente tra le meno conosciute, iniziato sul finire degli anni Cinquanta e già concluso nel 1964. Davanti ad alcune di queste sculture Lea Vergine, nel 1963, avvertì la tensione che Pirozzi immetteva nelle «figurazioni lacerate, tutte nervi scoperti, dalla materia contratta e palpitante» e parlò di soluzioni plastiche «violente e rotte, ma non dissolute e rarefatte». E Giorgio Di Genova, qualche anno dopo, osservò come nella plastica tormentata di queste opere «la miseria della condizione umana era intesa essenzialmente come dolore fisico, tanto che il tronco umano poteva giungere a somigliare sorprendentemente a un bue squartato» (G. Di Genova, 1967). L’ampia documentazione fotografica che per la prima volta viene ora presentata conferma il carattere unitario della ricerca che Pirozzi andò conducendo in quel lustro. La coerenza di questa fase di ricerca non è riducibile ad un generico riferimento all’area delle esperienze che allora facevano ponte tra la tradizione storica dell’espressionismo e l’urgenza informale. Sono sculture attraversate da un sentimento acutissimo della vita, che raggiunge il suo acme proprio quando le condizioni della sopravvivenza sembrano farsi disperate. Ne risultano immagini di una grande potenza espressiva, in cui il corpo, dell’uomo o dell’animale, spesso ferito, dilaniato, ridotto a dolente lacerto, invade la scena e diventa protagonista assoluto. Nel riproporle nella sezione antologica di questo volume, è sembrato che una loro rilettura, oggi, potesse essere aiutata dalla riflessione su un breve passo tratto da un volume di Umberto Galimberti, in cui si sottolinea come il tempo non è qualcosa che, come un fiume, scorra intorno ai corpi segnandoli e consumandoli, ma è invece la vita stessa del corpo. «Il corpo – dice Galimberti – nasce e muore, e quindi la temporalità gli compete per una necessità interiore. Tempo e corpo non sono perciò separabili, e poiché l’essere del tempo non è altro che il suo passare ne consegue che l’eternità non deve essere ricercata in una dimensione al di là del tempo, ma “nel passare del tempo”» (U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 1983).
Il lettore troverà nella seconda parte di questo volume, a fronte delle immagini che documentano il lavoro dell’artista dal 1953 al 2006, un’ampia antologia critica. Sono stati scelti quei testi critici che, muovendo da punti di vista differenti, rappresentano in ogni caso un contributo utile alla comprensione dell’arte di Pirozzi. Non sarà quindi necessario ora ripercorrere passo dietro passo tutto il cammino compiuto dall’artista nell’arco di oltre mezzo secolo, tanto più che in precedenti occasioni io stesso mi sono già impegnato in un compito del genere (cfr. Costellazione in catalogo Napoliscultura, A&C, Napoli 1988 e Quale avanguardia?, Paparo, Napoli 2002). Voglio però sottolineare che dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi il cammino di Pirozzi è stato accompagnato da una serie di interventi critici di particolare rilievo, tra i quali spiccano, oltre ai pochi di cui s’è avuto già modo di parlare, i contributi di Enrico Crispolti e di Luciano Caramel, centrati sul periodo che ha visto l’artista tradurre la durezza esistenziale dei nuclei tematici precedentemente affrontati in situazioni di più ampio e complesso respiro compositivo, non infondatamente avvertito da qualcuno come segnale di una rinnovata vitalità del barocco napoletano. Ma l’interprete più attento e partecipe dell’arte di Pirozzi è stato Luigi Carluccio. Da quando davanti ai primi “contenitori”, invece di limitarsi a richiamare le esperienze della Pop americana e leggerli genericamente come emblemi della civiltà dei consumi, vi vide un segnale che veniva indubbiamente da un momento di vita popolare napoletana, ma che riassumeva un ben più radicale e vasto processo di alienazione: «L’anima si è fatta cosa. I moti sono contratti, ridotti all’ultima più semplice opposizione: diastole e sistole di un povero oggetto che forse rotola nei bassi di Napoli. Un oggetto fatto di specchi e di buio, che rotolando muta l’oscura materia in sangue e lamenti, rinnovando così l’eterno miracolo» (L. Carluccio, 1971). Fino al 1981, quando egli, come presagendo la morte che sarebbe sopraggiunta inattesa di lì a qualche giorno, scrisse della profonda consapevolezza, implicita nel lavoro di Pirozzi, «che la realtà è un momento di passaggio e che in modo evidente o segreto ogni cosa compiuta trascina con sé, come un termine di riferimento necessario, la sua radice ancora informe e lo spettro di ciò che diventerà in futuro» (L. Carluccio, 1981). È difficile oggi a chi rifletta sul lavoro di un artista come Pirozzi, così tenacemente legato ai materiali e alle tecniche tradizionali della scultura, sottrarsi ad una preliminare interrogazione sul senso della scultura oggi. In tempi di ibridazioni di generi artistici, di contaminazioni e sconfinamenti linguistici, tra la spettacolarità diffusa dalle nuove tecnologie elettroniche e l’invadenza della scena urbana diventata, come ha scritto Günter Anders, «un’esposizione pubblicitaria che è impossibile non visitare perché comunque ci stiamo dentro», la frequentazione dei luoghi della scultura, dove le ragioni della ricerca artistica s’affidano ancora a materie e tecniche antichissime, potrà facilmente apparire come la scelta di una marginalità appartata, e certamente scomoda, compiuta forse non col desiderio di ritirarsi nell’ombra, ma con l’ambizioso proposito di puntare tutto sulla carta del futuro, di rimettere in gioco l’idea della scultura come arte per eccellenza candidata alla perennità. Su questa idea, com’è noto, si è fondato il mito della scultura, secondo una concezione millenaria che le assegnava il compito di conservare nei secoli e celebrare in immagine i valori in cui la società si riconosceva. Da quando però l’idea della perennità ha perduto nella nostra coscienza qualsiasi carattere di certezza, la scultura è stata costretta a ritornare sui suoi passi e verificare l’attualità del suo originario ruolo di difesa dall’oblio e dalla precarietà dell’esistente. In realtà, quando essa evoca il suo glorioso passato di segnale dell’essere, di custode di ciò che intatto resiste e si tramanda sotto le mutevoli forme del divenire, proprio allora il ricordo del mito, del suo mito, rende più acuto l’orrore del nulla sotteso alla caducità di ogni cosa esistente e trasforma la scultura da orgoglioso presidio di perennità in una dolorosa immagine anticipatrice di morte. Forse anche per questo il tenace attaccamento di Pirozzi ad una delle tecniche più antiche del fare scultura, quale è quella del bronzo, più d’ogni altra legata all’idea della perennità, alla capacità cioè di tramandare nel tempo immagini di valori e di simboli che si vorrebbero eterni, evoca la memoria di una mitica e sempre rinnovata promessa di felicità. Ma nella scultura di Pirozzi questo ricordo, che si suggella spesso in frammenti di bellezza classica, convive con una condizione di vita compromessa, in cui affiorano e si moltiplicano i segnali di morte. E anticipare la morte, richiamarne la presenza nei momenti in cui più intensamente sentiamo pulsare la vita, significa aprire il nostro mondo su un orizzonte di totalità. Quello, appunto, che spalancandosi intorno alla scultura fa di questa un’inattesa e perturbante apparizione. Nelle opere degli ultimi anni la scultura di Pirozzi, sotto una veste pacatamente sobria e quasi dimessa, ha messo in atto un brusco corto circuito tra assemblaggio oggettuale e recupero della propria originaria funzione monumentale e celebrativa. La scultura torna ad essere emblema di gloria, trofeo ma non di vittorie riportate in imprese eroiche, destinate a rimanere nelle pagine della “grande” storia. I trofei che l’artista innalza sono collezioni di oggetti domestici, le spoglie sono appunti e souvenir di pensosi viaggi compiuti sulla costa amalfitana con quella stessa ironica e saggia benevolenza con cui Pirozzi erige monumenti encomiastici alla mano e al piede dell’uomo, ponendoli su un trono che è la miniatura d’una vecchia sedia di cucina contadina. Talvolta l’aspetto delle sculture è simile a quello delle panoplie rinascimentali, dove però le cose familiari e gli oggetti dell’atelier hanno preso il posto dei simboli dell’umana ferocia. Alla cerchia di questi pensieri appartiene, come s’è accennato, la questione della “fedeltà al bronzo”. L’interessante osservazione di Di Genova secondo cui Pirozzi pur avendo fatto suo lo spirito del Manifesto tecnico della scultura futurista redatto da Boccioni nel 1912, ne avrebbe tuttavia disatteso le rivoluzionarie indicazioni di polimaterismo, per il suo folle amore per il bronzo (G. Di Genova 1996), trova un’indiscutibile conferma nel fatto che i procedimenti di assemblaggio oggettuale, che dagli anni Ottanta hanno preso sempre più spazio nella scultura di Pirozzi, dando spesso vita a strutture plastiche di serrata compattezza, ma percorse da forti tensioni dinamiche, si concludono puntualmente con la fusione nel bronzo. E tuttavia la ragione di questa conclusione apparentemente contraddittoria s’identifica con la ragione stessa del fare scultura ed è tale da capovolgere l’ovvio riferimento al passato, al mito della scultura, appunto, in una utopica richiesta di futuro. Nel suo testo pubblicato in questo volume, Mario Persico, interrogandosi sul «bisogno di ricreare un rapporto arte-vita che per diverse ragioni è stato interrotto», spiega come Pirozzi cerchi di ridare forma a questo rapporto attraverso il ricorso alla memoria, alle accumulazioni visive e all’uso di rifiuti e di reperti di varia natura, tra cui noti e riconoscibili frammenti della classicità. «La successiva trasposizione di tutto ciò “nell’antica e nobile materia del bronzo” – continua Persico – non solo ribadisce la volontà di ricomporre oggi il rapporto fra reale e immaginario, ma rimanda anche alla consapevolezza che, «in una fase storica in cui si è attuata una totale derealizzazione di quei valori culturali, politici, ideologici che penetravano nella vita quotidiana e su cui la cultura umanistica fondava la propria idea della storia», quella volontà di ricomposizione potrà risultare alla fine «confortata dalla convinzione secondo cui un gesto utopico vale spesso più di qualunque segreto strappato al mondo esterno» (M. Persico, 2006).
La ragione principale di questa pubblicazione e della mostra che l’accompagna è certamente nel desiderio di far conoscere l’arte di Giuseppe Pirozzi ad un ampio pubblico, soprattutto alle generazioni più giovani, alle quali giungono in abbondanza messaggi di una promozione artistica sempre più somigliante a quella dei grandi marchi commerciali, ma ben pochi segnali che riguardino fatti e personalità artistiche ricacciate dalla globalizzazione dei mercati e dell’informazione artistica tra le pieghe della storia. Eppure non si tratta di artisti di corto respiro né ci riferiamo a vicende locali, tagliate fuori dai percorsi della cultura internazionale. Anche le considerazioni fin qui svolte a proposito dell’arte di Pirozzi dimostrano come a Napoli fin dagli anni Cinquanta gli artisti abbiano potuto respirare un’aria tutt’altro che provinciale e nutrirsi di apporti culturali nei quali le innovative esperienze condotte dai maestri napoletani delle generazioni precedenti si saldavano con altre di varia provenienza internazionale. Come oramai risulta evidente dal lavoro di restituzione storiografica – che ha messo in luce la ricchissima ed ampia rete di relazioni internazionali sottesa alla ricerca degli artisti napoletani – compiuto negli ultimi vent’anni, a partire almeno dalla mostra e dal catalogo di Fuori dall’ombra fino al recente volume di Mariantonietta Picone sulla Pittura napoletana del Novecento, gli anni Cinquanta e Sessanta furono un momento cruciale nel rinnovamento della cultura artistica napoletana attraversata dalla presenza di molteplici e significativi segnali di apertura alle esperienze internazionali allora in corso. Diversamente da quanto accadrà in seguito, quando l’iniziativa di alcune gallerie private acquisterà particolare rilievo, il processo di rinnovamento culturale per un lungo tratto della seconda metà del Novecento ha avuto come protagonisti esclusivamente gli artisti, spesso riuniti in gruppo e in ogni caso mai isolati, poiché, anche quando poterono apparire tali rispetto al contesto locale, in realtà seppero collegarsi con situazioni e personalità atti-ve fuori dei confini provinciali. La tesi secondo cui l’arte contemporanea a Napoli avrebbe mosso i suoi primi passi dagli spazi espositivi privati, per passare trionfalmente in seguito sotto l’ala del potere pubblico. ovvero la pretesa di far risalire le radici profonde del cambiamento culturale alla nascita di alcune gallerie private che avrebbero esse per prime avviato lo svecchiamento del gusto e delle pratiche artistiche locali, attivando collegamenti e relazioni internazionali fino ad allora sconosciute e impensabili, è l’arbitraria retrodatazione di un fenomeno – quello del primato del molo delle gallerie private prima e delle istituzioni pubbliche poi nella diffusione della cultura artistica a Napoli – che ha assunto caratteristiche crescenti negli ultimi decenni e che in larga misura ha alla sua base lo strapotere delle lobby internazionali del mercato nel cosiddetto sistema dell’arte, in grado di condizionare anche l’indirizzo e la gestione della politica culturale delle istituzioni pubbliche. Un aspetto particolarmente preoccupante di questo fenomeno sta nel fatto che esso, accorciando enormemente la distanza tra il piano della commercializzazione dei prodotti artistici e quello degli studi storici e della musealizzazione, ha accelerato i processi di marginalizzazione, di dispersione e di oscuramento, fino alla vera e propria distruzione materiale, dei documenti della cultura artistica — e quindi in primo luogo dell’opera d’arte, che è pur sempre il documento principe — estranei agli interessi del mercato e delle istituzioni museali che ad esso sono sempre più direttamente collegate, quando addirittura non vi si identifichino. Questa mostra dedicata a Pirozzi e le altre da noi curate negli ultimi anni – e voglio ricordare almeno quelle di Perez, Lippi, Matarese, Di Ruggiero e Waschimps – rappresentano perciò il tentativo di richiamare l’attenzione non solo degli addetti ai lavori, ma del più largo pubblico possibile, soprattutto dei giovani, su momenti e personalità fondamentali del rinnovamento dell’arte a Napoli nella seconda metà del Novecento. Si tratta di iniziative che non ambiscono alla spettacolarizzazione del fenomeno artistico, ma che hanno l’obiettivo di promuovere la conoscenza di alcune pagine fondamentali di una storia artistica che è parte viva del nostro presente, nella convinzione che, come abbiamo più largamente scritto in altre occasioni, l’orizzonte di questo non si esaurisce nell’attualità delle mode e di interessi di troppo breve raggio.
Corbi, La scultura tra mito e utopia, testo critico per la personale Giuseppe Pirozzi a Castel Nuovo a Napoli, Napoli, Paparo Edizioni, 2006