G. Di Genova. Pirozzi, uno scultore coerente
testo critico di Giorgio Di Genova presentato a Progetto Arte, Guida, Napoli, 1997
La coerenza e le prerogative che connota il discorso plastico di Giuseppe Pirozzi. Da decenni, infatti, lo scultore napoletano, dopo aver digerito il passo obbligato della figurazione nella sua fase d’esordio (si sa, si parte sempre e in genere da un’osservazione della realtà circostante e, per quanto riguarda gli scultori, dallo studio delle fattezze e delle movenze del corpo umano) e dopo aver fatto i suoi bravi e altrettanto obbligati conti con le morfologie informali, che sin dagli iniziali anni Sessanta avevano percepito l’importanza della declinazione pereziana, ma con aggiustamenti più europei, come mi par dimostrino certi echi riconducibili alla Richier, intorno alla metà degli anni Sessanta ha trovato nel coagulo delle due polarità in precedenza percorse e consumate una fisionomia che fino ad oggi s’è approfondita, ma non è sostanzialmente mutata.
Sin da allora universo degli uomini e universo degli oggetti sono entrati in frizione, con tutta una serie di assorbimenti della lezione della plastica del passato e del presente, che ha fatto si che le grinze, dove venivano piegate alle personali esigenze espressive certe istanze del materismo e del visceralismo informali all’epoca in yoga (da Quinto Ghermandi ad Amilcare Rambelli), riassorbissero memorie del barocco napoletano, mentre l’assemblagismo lievitava, come pure il dialogo tra persone e cove, e ben al di là della lezione di Perez, al quale è stata estranea la componente parasurreale pirozziana.
Componente che reputo nient’affatto secondaria nell’opera di Pirozzi, anche per quanto riguarda talune prove recenti, e penso a quella gustosa opera una e trina del 1994, diretta filiazione del bronzo del 1987 Massa e potere, intitolata I tre seggi, su cui troneggiano forchette e cucchiai invischiati in neodada “vomiti” di materia, ed anche al coevo bronzo La distanza, nel cui magma materico viene impastato i1 lettering. con un recupero di quella stagione del new dada napoletano che vide Del Pezzo incastrare nei suoi bassorilievi materici bulloni, rotelle dentate, lettere, asticelle e quant’altro fosse utile a rinverdire elle falde del Vesuvio il culto dell’immondizia introdotto nel cerchio magico dell’arte da Schwitters.
Già trent’anni fa sottolineavo tale diversità di Pirozzi da Perez in un testo scritto per la mostra Scultori napoletani, tenuta nel 1967 alla Gaileria Due Mondi di Roma. «Pirozzi rivela già – scrivevo allora – di avere un temperamento abbastanza autonomo sia per quel che riguarda il senso della materia, sia per quel che riguarda il senso dello spazio e sia per quel che riguarda il senso tragico della vita». E proseguivo: «Miseria e morte, la miseria e la morte ormai per lunga tradizione e storia tanto napoletane, pervadono la scultura di Pirozzi, dando un sapore tragico a quel fremito di vita che sprizza da quasi tutti i suoi pezzi. E si badi, non vi tratta qui, come in Perez, di miseria della carne, né di morte etica o bellica; in Pirozzi la miseria è quella dell’esistenza quotidiana e la morte di conseguenza è esistenziale, senza essere ancora assurta a fenomeno sociale». In quel testo indicavo anche il peso della tradizione del barocco napoletano come una delle componenti, assieme al visceralismo, della scultura di Pirozzi, mettendo altresì in evidenza la conflittualità tra uomini e oggetti, nonché la «degradazione della sfera dell’organico a quella dell’inorganico» e il continuo intersecarsi di presente e passato.
Tutti questi aspetti si sono evoluti, naturalmente. Ma, anche se la figura umana ore è stata fatta a pezzi ed ora è totalmente assente, sono ancora rintracciabili nella scultura di Pirozzi, il quale dagli anni Ottanta ha mostrato di aver fatto tesoro pure della lezione del Futurismo, probabilmente in virtù di una rimeditazione sulla plastica di Boccioni, come mi par dimostrino opere quali Costruzione utopica del 1987 e Pulsioni antagoniste del 1988, nella quale ultima il coagulo assemblagistico denuncia aspirazioni al dinamismo di Boccioni, che col suo fondamentale Manifesto tecnico della scultura futurista nel 1912 ha aperto la strada alla scultura contemporanea, Pirozzi ha ben compreso lo spirito, pur se ne ha disatteso le rivoluzionarie indicazioni di polimaterismo, da altri napoletani, invece, seguite. In verità è inesatto affermare che Pirozzi ha disatteso le boccioniane indicazioni polimateriche. Esse infatti sono rispettate nella prima fase del suo fare, ma, siccome il nostro è follemente innamorato del bronzo, le ha trasposte, o se si preferisce fuse, appunto, nell’unica materia del bronzo.
Le indicazioni qui date, seppur sommarie, come l’occasione richiede, mi sembra attestino il robusto spessore della scultura di Pirozzi. Spessore che non è valido solo sul piano plastico, ma anche su quello culturale. Spessore che gli ha guadagnato un posto di rilevo nella scultura napoletana del secondo ‘900, facendolo chiamare anche per la ideazione e realizzazione di opere pubbliche, come il Monumento ai Caduti di tutte le guerre, che da dieci anni sorge ad Aiello del Sabato nell’Avellinese. Dire che la scultura di Pirozzi gronda umori di napoletanità è allo stesso tempo vero e falso, perchè tutto sommato riduttivo. Certo egli ha saputo interpretare gli stimoli che gli sono venuti dalla sua citta ed ha saputo rispondere ad essi, rimanendo abbarbicato ad un’idea di scultura che solo a Napoli ha trovato sviluppo e consistenza. Ma tali stimoli ha saputo vivificare con assorbimenti extra-napoletani, come segnalato, alla stessa stregua di come, all’interno del suo figurare, ha spesso messo in rapporto dialettico il morbido panno e la durezza dell’oggetto, la carne ed il reperto della quotidianità, l’informe e il geometrico, in una continua somma di elementi che solo in apparenza determinano un’altalena espressiva, in quanto sono tutti momenti di un medesimo ed unitario sentire ideativo plastico. Per tale ragione, come dicevo all’inizio, reputo la coerenza il tratto massimamente connotativo del discorso plastico di Pirozzi.
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