L. Vergine. Giuseppe Pirozzi
in «Il Pungolo», 2 maggio 1963
Da un’avvertita tensione, che tiene conto dei problemi di un rapporto con la realtà, nascono appunto le sue opere. E sono figurazioni lacerate, tutte nervi scoperti, dalla materia contratta e palpitante – Animale (1962) –, versate in una volontà di metamorfosi, tagliate e scavate con intelligenza dei rapporti chiaro-scurali. E’ sempre vivo in lui l’istinto naturale, un non voler prescindere dalla radice umana delle cose, percepibili nella materia che pare appena plasmata, liberate dalla memoria in episodi drammatici o lirici.
Ogni tratto comunque, nella barocca libertà di questi frammenti, rivela una ricchezza di valori possibili, anche se è presente il senso doloroso di un’alternativa costante tra figurativo e fuga dal reale.
Tuttavia il rischio di una posizione ambigua è largamente arginato dal vigore di un ottimo mestiere, dal fervore di un’aspirazione che non teme la chiarezza espressiva, dalla capacità di organizzare i volumi, di sensibilizzare le superfici, da una natura insomma autenticamente dotata per una ricerca specificamente plastica.
Il mondo di Pirozzi fa leva sul fattore evocativo, nonostante l’esigenza di talune alterazioni “d’attualità”, dove però non è rifiutata la presenza di forme plasticamente definite in tutta la loro sostanza.
Violente e rotte, ma non dissolute e rarefatte le sue più recenti soluzioni, calate in un processo che non è di sfacelo, sempre tese a un peso e a una misura antichi.
Sculture che racchiudono i gesti immediatamente dettati dall’ispirazione stessa che cresce e si sovrappone nel suo farsi, intorno alle qual si incontra un’espressione incalzante, coinvolte in uno slancio ascensionale continuo dove anfrattuosità e tumescenze si alimentano a vicenda lungo le superfici scabre.
Giuseppe Pirozzi è già più di una promessa; è lecito attendersi quindi un sicuro sviluppo nell’ambito di una tradizione plastica mediterranea dove intelligenza e istinto si fondono in belle commistioni.