testo critico di Luigi Carluccio per la personale “Pirozzi” alla Galleria delle Ore di Milano, 1971, pubblicato anche in Lo Spazio, febbraio 1977
«Ho allontanato l’immagine fisica dalla schiavitù della sua praticità per sintonizzare una visione immagine-ricordo, miscelandola, entro emblemi allusivi ed attaccandola in sporadiche parvenze d’azioni». Così ha scritto lo stesso Pirozzi, per chiarire il senso del suo lavoro, sul catalogo del Premio Lissone ‘67, in un momento del percorso già così intenso dell’artista che si presenta con i segni di una profonda crisi di crescenza. Crisi risolutiva, e proprio nella prospettiva di una situazione di cultura, quella napoletana, che potrebbe essere ancora definita provinciale, per non diminuirla, ma, semmai per sottolineare il carattere di rito ossessivo, liberatorio e sempre teso al limite, che ogni evento vi acquisisce, facendo si che essa divori i propri divoratori.
Quello è anche, mi pare, il momento in cui Pirozzi avverte in misura più̀ scoperta e patita la suggestione così vicina di Perez, una presenza che del resto è difficile da scartare dagli sviluppi stilistici e dagli impegni dell’ultima generazione di scultori napoletani, proprio perché́ porta in sé e con sé e la sospinge verso il suo acme, quella vena rituale e magica, che è implicita da sempre e sembra destinata a non esaurirsi mai, nella vita dei napoletani: la vita arcana, che fa di ogni cosa una reliquia e di ogni evento un’apparizione di scena. Un umano, sensuale patimento della carne e dell’anima, una sfida alla morte, orgogliosa e sfrontata perché lanciata con piena conoscenza della inevitabile sconfitta e perché esaltata dalla sua stessa sublime gratuità, costituiscono il tema di fondo della scultura di Pirozzi intorno al 1967, quando modella Dietro la porta, Il cerchio addosso, La parete. In queste ed in altre opere l’artista manifesta la sua forte partecipazione attiva e sentimentale; rifiuta scopertamente, quasi per legge d’istinto, di chiudersi in stilemi preziosi; rivela, attraverso una fervorosa replica plastica, il lucido dominio dell’intera opposizione tra forme o lacerti di forme ribollenti, scavate, convulse ed altre che invece sono piene e compatte. Quasi che egli voglia annunciare la possibilità di trapassare il blocco del tempo e la resistenza della materia e, al tempo stesso, l’impossibilità di consumarli interamente.
È anche il momento in cui Pirozzi riconosce che questa opposizione interna è un’opposizione “eterna”, che lui deve accogliere e sospingere verso il suo limite di rottura. Storia e vita, passato e presente, realtà e sogno, in un labirinto barocco che allunga l’enigma di luce e di ombra, anche le ferite di oggi assumono l’apparenza e la malinconia dei ricordi: esse diventano memoria, della quale ciò che resta e dura è l’impronta che le ferite lasciano nella materia. Un’impronta nitida, ma ribollente, stravolta dall’intensità con cui il ricordo aggancia, forse bisogna dire “arpiona” la cosa viva e presente e al tempo stesso la delude, la mortifica, la svuota, riducendola a straccio, rifiuto, impietoso rigurgito.
Davanti ai recenti “contenitori” di Pirozzi si può essere tentati di richiamare le esperienze più drammatiche della pop-art americana, nel Nouveau Réalisme, e di farne, genericamente, degli emblemi della contestazione, della civiltà dei consumi. Tentazione troppo facile e deviante, perché lascia da parte il forte e dolente grumo di passione che essi pure esprimono con la loro lucida e piena plasticità. I motivi d’amore e di morte, di pietà e di rivolta, di consenso e dissenso che costituivano l’essenza di opere come: La porta e Il cerchio addosso appaiono nelle ultime opere ridotti all’osso. L’anima si è fatta cosa. I moti sono contratti, ridotti all’ultima più semplice opposizione: diastole e sistole di un povero oggetto che forse rotola nei bassi di Napoli. Un oggetto fatto di specchi e di buio, che rotolando muta l’oscura materia in sangue e lamenti, rinnovando così l’eterno miracolo.
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