in «L’Officina di Efesto», anno 2021, pp. 233-2365
“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico”. Il verso del poeta lo possiamo anche rovesciare in “c’è qualcosa di antico oggi nel sole, anzi di nuovo” e avremo il senso di una mostra rara: Genesi (sculture e ceramiche di Giuseppe Pirozzi e Clara Garesio) a cura di Lorenzo Fiorucci e Francesca Pirozzi (che ha curato l’allestimento), tenutasi nel Museo Campano di Capua tra febbraio e marzo 2023.
Rara per l’idea e per l’allestimento come poche volte se ne vedono, e che già da solo merita la visita alla mostra; e poi le opere, sculture e terrecotte di Giuseppe Pirozzi a piano terra, ceramiche di Clara Garesio al piano superiore. Opere che si frappongono tra le Matres Matutae del museo, vi si compenetrano, si armonizzano, dialogano. Ed è come un’ulteriore mostra.
L’allestimento, si diceva. Appare pensato e svolto a suggerire ulteriori significati, oltre a quelli, intrinseci, propri delle opere: significati estetici, formali e anche di “contenuto”. Un significato sottile scorre infatti per tutta la mostra, ora sotterraneo e ora pienamente affiorante in superficie, e rappresenta anzi il tema dominante della mostra stessa: ed è il “dono”, il dono che l’artista offre al visitatore, ora, in questo caso particolare, ma anche in generale, perché l’arte è sempre un “dono” nelle sue molteplici varianti; di queste se ne suggerisce soprattutto una, che l’accostamento con le antiche divinità italiche dispensatrici di vita rende abbastanza esplicita. In qualche accorgimento espositivo di straordinaria efficacia il rapporto dono-vita viene, tra l’altro, reso plasticamente evidente, come vedremo.
Ci accolgono, quasi a introduzione delle tematiche della mostra, due piccole e abbastanza recenti sculture di Pirozzi in terracotta (che rappresenta infatti la “materia” più recente utilizzata dall’artista) Rimorso, del 2016 e Respiro, del 2019. Le dimensioni ben più ridotte rispetto alla mensola e al capitello su cui sono collocate non rispondono solo a ragioni pratiche ma rispecchiano, a mio avviso, anche una volontà di dialettica, che è contrasto, di dimensioni e di materia, ma anche colloquio: in Respiro, il precario equilibrio del piccolo capitello al di sopra del confuso ed instabile accavallarsi di strati informi e casuali come dovuti all’avvicendarsi del tempo; in Rimorso, il disordine dei vari elementi, che sembrano urtarsi più che comporsi, paiono “rovine” che alla fine si organizzano, si riordinano, si “sublimano” quasi, se non altro come una sorta di ordine mentale (Geometrie mentali è il titolo di un’altra scultura, del 2005). Anche nei due supporti il tempo ha scalfito la compattezza di una struttura che nasceva “ordinata”; e allora il molteplice della contemporaneità in qualche modo si rispecchia nella “contemporaneità” di un ordine antico che il tempo ha reso, appunto, anche questo “molteplice”.
Terrecotte, bronzetti (i tipici, deliziosi bronzetti di Pirozzi) anche un bronzo (Due corpi, del 1959, a rappresentare l’epoca informale del giovane scultore) e poi due “trittici”: Tre tempi (1979-2017) – dove la testa apollinea, i motivi geometrici e le squadre sembrano dettare altrettanti tempi musicali – e quel bellissimo trittico del 2017 che fu già esposto nella grande mostra a Castel Sant’Elmo e che, collocato nella chiesa, avevo avvicinato ad una vera e propria pala d’altare, a coronamento del grande pannello delle “preghiere”. E siccome su un’opera d’arte incombe sempre l’eventualità (destino o pregio che siano) di tornare e ritornare sempre di attualità, anche la più stringente (non è forse l’arte sempre un “dono” che mai può passare di moda, come sostengono a ragione gli ordinatori della mostra?) il “tragico” di quella mano abbandonata, come paiono abbandonati, intrecciati, sovrapposti alla rinfusa i vari “oggetti”, come tanti pezzi di un naufragio.. il resto viene da sé.
Se questo accostamento è dovuto al caso (che in arte però non è mai fortuito) al caso sarà forse dovuto (ma se è stato un caso lo ha dettato, “voluto” l’inconscio) anche questo singolare e, a mio avviso, bellissimo “suggerimento” che l’allestimento ci propone. Succede infatti che in un altro bronzo “storico” di Pirozzi, intitolato Duemilaquattro, le mani protese sembrano sporgersi e i piedi pronti a muovesi sembrano incamminarsi verso un gruppo di Matres Matutae che, poco discoste, paiono essere lì ad attenderli.
Il colore delicato e tenue delle terrecotte di Pirozzi pare anch’esso avviarsi al ricongiungimento con il colore, ovviamente ben più squillante, delle ceramiche di Clara Garesio, attraverso la scenografica scala che conduce al piano superiore e alla cui sommità sono collocate due delle Matres più significative dell’intero museo. Ancora una volta statue antiche e opere moderne genialmente si compenetrano, offrendo anche al visitatore l’occasione di interferire lui pure con il “dono” su cui gli ordinatori hanno impostato molta parte dei “significati” della mostra.
Due grandi piatti di Clara Garesio sono stati collocati ai lati delle due Matres or ora citate. Di questi, uno pare voler idealmente prestare i suoi grandi occhi alla statua che l’affianca e i propri ha perso ma guarda in alto: quasi a risarcirla di quella perdita e magari permetterle di cogliere una visione che le sfugge. L’altro è posto accanto a una Mater che “offre” un notevole numero di neonati in fasce: allusione a un dono di parti assai fecondi alla comunità che la venera o magari solo plurigemellari; il piatto allora viene ad assumere l’aspetto di una vera e propria offerta propiziatrice alla divinità, e insieme anche richiama quei deschi da parto che in epoca rinascimentale si usava offrire in dono alle illustri partorienti.
Ma non solo. Lì accanto sono stati posti anche alcuni degli splendidi vasi di Clara, dall’aspetto un po’ orientale, che possiamo immaginare contengano dolci profumi e preziose essenze, per la divinità, le puerpere, i piccoli infanti. Le Matres, inoltre, sono speranza di vita ed ecco apparire quel pannello del 2019 che porta appunto come titolo Speranza.
A descrivere la fantasia inesauribile e la genialità di quel mondo colorato non bastano gli aggettivi. Le mattonelle con i fiocchi, i nastri che si intrecciano, si rincorrono, si ritrovano, si riorganizzano – è uno dei temi cari alla nostra ceramista – sembrano in contrapposizione con la fissità iconica del frammento di colonna e con i dadi delle basi su cui poggiano. E forse lo sono anche, ma è sempre lo stesso sole che li ha illuminati allora, solitari, e continua ancora, che soli non lo sono più, a illuminarli, illusionisticamente.
In quel mondo colorato, i riccioli, i nastri delle mattonelle e i cubi – simbolo questi ultimi dell’episodio di Achille e Aiace che giocano a dadi – non sono però solo semplici riccioli nastri dadi ma si trasformano nel più magico dei caleidoscopi.